ANTOLOGIA CRITICA
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ANTOLOGIA CRITICA
Tra i poli di una dimensione pop e di uno spazio iperreale,
ma derivando ascendenze dalla stagione surrealista,
Umberto Fabrocile recupera nelle sue opere
recenti un taglio espressivo connotato da una duplice
valenza.
Da una parte è il dato realistico o piuttosto l’accentuazione
del reale in termini di messa a fuoco del particolare,
colto con vividezza cromatica e con gusto quasi
calligrafico del segno, dall’altra è la tensione compositiva,
l’inquadratura dell’opera secondo uno schema
proprio dell’immagine fotografica che qui, nella riflessione
pittorica, si carica di significati metaforici.
Alla ricerca è sottesa, in realtà, una tensione mentale:
un gusto espressivo vigilato entro un disegno progettuale
che acquista corpo nell’opera stessa nel suo farsi
e nei rapporti reciproci tra gli elementi formali e cromatici
che sono ordinati a costituirla.
Progettualità e rivelazione si compongono per così
dire in una iconografia che ha il sapore di una realtà
colta al di fuori di ogni geografia di spazio e di tempo,
vista o intravista nella poesia e nella memoria.
(Giorgio Agnisola, presentazione della mostra, 1987)
La parola non è la cosa e tanto meno la parola letteraria
che se si scava un tempo d’esistenza è nel riverbero
di un’immagine mentale, di una traccia lasciata dal
gioco mediato dei segni e dei rimandi. Se queste tracce
si riflettono poi su una tela subiscono un’ulteriore
codificazione ma lo scopo rimane lo stesso: rendere
visibile una coscienza intenzionale e le sue modalità
di rappresentazione, innalzando il regno del linguaggio,
mediante uno sforzo d’incivilimento del grido,
dell’emozione prima e indicibile, del suo lessico prezioso
ma per molti versi indecifrabile.
Eppure le tracce del Novecento sono anche propriamente
corpi, oggetti, che però non vincolano ad un
senso, costituendo ormai una razionalità parziale, cioè
solo una parte del discorso che si è fatto complesso
e si perde nei rivoli senza alcuna garanzia contro il
dubbio. Per questa doppia ragione, intrinseca e storica,
anche quando sembra riprodurre la realtà, e forse
ancor più quando tende puntualmente a descriverla o
a imitarla, il quadro non mette a nudo le cose, ma dei
corpi associati, cioè dei sensi, procedendo di dubbio
in dubbio nel tentativo di rivelare una coscienza e di
metterla davanti all’altro perché l’altro possa aiutarla a
dirsi, nella chiamata comune dell’essere alla ricerca
della donazione di senso.
Perché la piuma pesa fino ad inarcare il legno? Dove
comincia o finisce un gesto? Dove si è rintanata l’alterità?
È assente negli scaffali della libreria, o si cela nelle
ombre di una foto o dei ricordi personali; nella
montagna di scarpe di una memoria collettiva? Il Novecento
sa bene che una coscienza è solo un iceberg,
che dietro una coscienza c’è molto di più e c’è
quasi tutto: c’è il tempo che bussa alle pareti di una
prigione spaziale, c’è l’urlo lacerante della disperazione
e della solitudine, c’è la gioia indicibile, c’è tutto
quello che non sappiamo di noi. Se ciò che il quadro
rende visibile è il bisogno di senso che c’è nelle parole
e nelle immagini, e di un senso non già dato ma
sempre da costruire, sempre da farsi, allora il quadro
invita ad un atto di corresponsabilità: a donare senso
a partire dal proprio sguardo, dalla propria collocazione
prospettica, riconoscendone la portata e i limiti e
aprendosi alla pluralità del confronto.
Ma in questa
assunzione del senso come donazione, della visione
come costruzione, della pluralità ora come obiettivo di
civiltà ora come scontro di entità irrelate; dello specchio
che non si rispecchia, del liquido che non discende,
del filo che nulla regge, non c’è la stessa complessità
semantica ed euristica di un secolo? Non c’è
la ragione stessa della sua libertà e dei suoi drammi?
(Giuseppe Ventrone, Caserta, 2000)
"… Anche quella di Fabrocile è una fine operazione
intellettuale. Si tratta del tentativo, da parte dell’artista
casertano, di creare un legame fra parola e immagine,
attraverso la suggestione metaforica dell’opera letteraria
riflessa nella interpretazione visiva. In effetti i
quadri di Fabrocile caratterizzano alcuni romanzi più
significativi del Novecento attraverso oggetti, cose,
simboli che sono, in definitiva, sintesi estreme del
swnso profondo del romanzo di volta in volta preso in
considerazione…".
(Lidia Luberto, “Il Mattino” 22 aprile 2001)
Un paesaggio angosciosamente terso fa da sfondo
agli elementi pittorici dei quadri di Umberto Fabrocile.
Sembra quasi che la visione delle opere avvenga, e
può solo avvenire, attraverso un filtro di una lastra di
vetro che, seppur separandoci, ci coinvolge nella realtà
di un oggetto quotidiano, anche se, al tempo stesso,
ne impedisce il contatto, l’appropriazione, poiché
l’oggetto ha subito un processo di iconizzazione ed è
diventato segno artistico, acquisendo un valore semantico
amplificato.
La sua dimensione di reale resta nell’ombra che si
staglia da esso, o nell’inquietante rappresentazione
statica di un momento cinetico quale il gocciolare di
panni stesi ad asciugare o il loro sventolare al vento.
Ovunque, tracce di una presenza discreta, appena accennata.
Ma l’artista si concede anche a giochi di seduzione
mentale più raffinati.
Allora le ombre si trasformano in linee di confine, dove
il dettaglio diviene fine a sé stesso nel suo netto
isolamento spaziale dal contesto; ma è anche parte
emotiva di un tutto composto da mondi paralleli che
si intravedono tra loro, si sbirciano, ma non si intersecano.
Sta a chi guarda, la scelta di andare oltre la linea
di confine.
(Patrizio Siviero, Caserta 23 marzo 2002)
Umberto Fabrocile, la memoria psicologica
La prima interpretazione dei lavori recenti di Umberto
Fabrocile si concentra sul significato simbolico dell’arte
come segno d’origine di una dimensione metaforica
che costituisce un linguaggio “altro”, integrativo e
talora alternativo della pagina scritta e della parola.
Interpretazione che insegue il contenuto iconografico
dell’opera e il suo progetto espositivo, caratterizzati
da una forma espressiva nitida, da un linguaggio pulito
ed essenziale, segnato da un lucido e intenso realismo
visivo che si alimenta di multiple e alternate suggestioni
( il vuoto e il pieno, lo scaffale e l’oggetto su
di esso collocato, il titolo dell’opera rappresentata e la
sua traduzione allusiva e così via).
Ad una successiva lettura si coglie però un senso più
nascosto, più psicologico si direbbe, ma anche più
poetico dell’arte. Si avverte che le opere non sono
state scelte per caso e neppure con un criterio puramente
coreografico o visivo: la scelta risponde ad un
percorso interiore: un percorso affatto interpretato
senza un principio e naturalmente senza un fine. L’opera
cioè e la sua immagine riflessa e trasposta costituiscono
il luogo di una dialettica speculazione della
vita,
quella dell’artista che interpreta il mondo in una
forma visibile che corrisponde a quella invisibile, quella
dell’artista che legge i nessi della stessa sua esistenza
nel dialogo con l’altro da sé riflesso e mediato
nell’immagine.Di qui, anche, lo stile di Fabrocile: la levigatura del
tratto, l’evidenza tecnica, la scelta stessa di una forma
di iperrealismo intimista e controllato. C’è insomma
nella ricerca di Fabrocile il tratto di una indagine intima,
che aspira a una sintesi di vita, a tradursi in presenza
intellettuale, in logica dei sentimenti e della
sensibilità. Una logica che ha tempi lunghi, che si intuisce
presupporre la persistenza del tempo e l’apprensione
dei suoi spazi interiori, delle sue vie silenziose
e profonde nei chiusi riverberi dell’emozione e
della coscienza. Un tempo che dilata le sue pareti sensibili nella tesa coniugazione di visione e memoria
psicologica, tra passato e presente, tra realtà e immaginazione.
(Giorgio Agnisola, testo in catalogo, Caserta 2003)
La libreria pittorica di Fabrocile ci si offre allo sguardo
come una galleria di volumi e oggetti. Ma essa, coerente
con la propria natura, dopo la prima occhiata, ci
chiama ad instaurare un rapporto di lettura a molti
strati; dietro il sobrio rigore delle linee rette degli scaffali,
dei libri scorgiamo l’appello ad un responsabile
atto di cooperazione interpretativa.
Il mondo del libro, il libro del mondo: è il paradigma
metaforologico esplorato da Blumenberg, che lo percorre
dalle origini scritturali alla formulazione del codice
genetico, riconoscendone la vitalità attraverso i
successivi riadattamenti cui è sottoposto nella storia
della cultura occidentale. Leggere il libro del mondo è
ideale primigenio e frustrante: quando il Macedone è
alle porte, avvisa lo scettico Luciano di Samosata, l’intellettuale
deve farsi xénos en toís biblíois, ospite dei
propri libri. Dinanzi alla barbarie l’intellettuale si chiude
nella propria biblioteca, inerme custode dei valori di
civiltà, frugando tra le pagine in cerca di restaurare un
ordine negato. La biblioteca è spazio di legittimazione
quanto di compensazione dell’impotenza.
La pittura
ha rappresentato con impareggiabile efficacia questa
condizione ancipite lungo il farsi della modernità; pensiamo
all’iconografia di san Girolamo raffigurato nel
suo studio, emblema dell’intellettuale;
pensiamo al
san Girolamo di Antonello da Messina della National
Gallery e a quello di Carpaccio della veneziana Scuola
di San Giorgio, che ci restituiscono l’immagine del
crescente prestigio dell’uomo di lettere rinascimentale,
i cui massicci tomi e raffinati oggetti assurgono a
status-symbols di un nuovo ideale di nobiltà; pensiamo
d’altronde al san Girolamo di Dürer della Galleria
Corsiniana e a quello di Caravaggio della Galleria Borghese,
nel cui studio campeggia un teschio a monito
del memento mori, della vanitas, insomma dell’irriducibile
conflitto tra natura e cultura; e pensiamo ancora
al ritratto di Erasmo da Rotterdam del fiammingo
Quentin Metsys, dove l’umanista ci appare intento
alla scrittura immerso fra i propri libri, con in pugno la
penna che, fin quando avrà energie, vorrà opporre alle
spade sguainate dagli odi confessionali.
Questa tradizione pittorica, che rappresenta lo sforzo
di serbare una possibile leggibilità del mondo, è notomizzata
nelle tele di Fabrocile, il quale ritaglia bui scaffali,
membra dolorosamente amputate dal corpo della
biblioteca, mute finestre illuminate dalla sola presenza
del libro. Libri tascabili, edizioni comuni, per lo più,
nessuna lussuosa copertina, nessuna pregiata legatura.
Libri sodi e virili, si sarebbe detto un tempo – ed
era il tempo, sarà bene ricordarlo, in cui il libro era inteso
come arma contro la tirannia fascista. Libri perciò
corposi, raffigurati con puntigliosa esattezza. Oggetti
non sublimi, ma di concreta fisicità. Il riquadro
della scansia configura lo spazio e lo risucchia fino ad
esaurirlo. Spazio in cui non trovano posto altro che
oggetti, dove la figura umana è ineluttabilmente estromessa.
E allora, si dirà, la biblioteca postuma
(post-moderna? ), polverizzata, luogo della rovina, è
l’unico spazio possibile, dove ritirarsi in compagnia di
pochi libri fortunosamente sopravvissuti, non più garanti
di alcuna coerente cifra ermeneutica? dove si è
per sempre rinunziato al sogno – frustrato –, che fu di
Mallarmé, fu di Borges di vedere «il mondo risolversi
in un bel libro»? Le monde […] est fait pour aboutir à
un beau livre … E invece quel mondo si può solo sogguardarlo
come da una prigione, entro dipinta gabbia?
Questo, ma anche altro. In ogni dipinto di Fabrocile al
libro è giustapposto un oggetto. Un oggetto all’oggetto-
libro. Ma, si badi, non è questa tecnica di correlativo
oggettivo, volontà di affidare, travasare nell’oggetto
il senso del libro – o lo è solo in certa misura.
Qui il piano dei significanti e quello dei significati sono abilmente
disarticolati. L’oggetto è piuttosto estrusione,
sporgenza del libro verso il mondo. Tentativo di evasione,
e solo parziale, dalla gabbia dipinta. Gli oggetti
sono ora banali, ora ironicamente introdotti, ora tratti
dalla sfuggente memoria personale dell’autore: la
bottiglia per Bukowski, il ficodindia per Camilleri, la
foto materna per Moravia. Libro e oggetto danno origine
ad un movimento pendolare, che complica e intende
non definire il rapporto tra interno-libro e esterno-
mondo – ma i due binomi sono suscettibili d’inversione
quanto alla relazione tra interno ed esterno – ,
tra ciò che è centripeto e ciò che è centrifugo. E altrettanto
aperto resta il rapporto di lettura che l’osservatore
è chiamato a stabilire con il dipinto, poiché l’accoppiamento
tra libro ed oggetto, ora scontato ora
capriccioso, suggerisce l’impossibilità di esaurire il
senso del libro nel referente storico-effettuale.
Atto di lettura come atto di responsabilità, ricezione
inesaurita, ma non concessione a decostruire.
In ciò si rivela il senso ultimo dell’opera di Fabrocile, che
vuol dirsi politico, in accezione originale, politikòs, civile.
Si guardi l’unica tela di più ampie dimensioni, dove
nelle reti che Fabrocile cala nel suo mare cartaceo resta
Gramsci, Gramsci dietro le sbarre, emblema del
prigioniero che qui s’è più volte evocato, la sua grafia
rigorosamente riprodotta su un foglio accartocciato,
che è icastica rappresentazione di una condizione, di
una precisa maniera d’intendere la storia e la filosofia
e la politica, maniera dal carcere segnata, che rinunzia
a compatti edifici teoretici, e si rivela invece nelle pagine
dei Quaderni, nei fogli delle Lettere, del carcere
appunto. E’ questa l’estrema sporgenza di Fabrocile,
che dietro la grata sa riconoscere il Gramsci così dipinto
da Gobetti nella Rivoluzione liberale: «Più che
un tattico e un combattente Gramsci è un profeta.
Come si può esserlo oggi: inascoltati se non dal fato.
La sua polemica catastrofica, la sua satira disperata
non attendono consolazione facile.
Tutta l’umanità, tutto il presente gli è in sospetto. Chiede la giustizia a
un feroce futuro vendicatore».
(Oreste Trabucco, testo in catalogo, Caserta 2003)
L’altro, per Umberto Fabrocile, è ciò che si muove intorno
a noi, dalle inezie quotidiane fino ai grandi eventi
politici, che l’artista recepisce, filtra e traduce nei
suoi dipinti-collage. Egli annoda, accoppia, stringe,
associa elementi vari, dispone carte, toccate o invase
da colori, affiancandole a riflessioni, addizioni fotografiche
e tesi politico filosofiche che fanno della sua arte
un mezzo, talvolta duro e dissacrante, di denuncia.
(Nadia Verdile, presentazione mostra, Caserta 2007)
“Dys-pensare il quotidiano”
La recente ricerca visiva di Umberto Fabrocile, sembra
muovere da un suggerimento di ordine filosofico.
E in realtà non è esclusa nella ambiguità del suo possibile
senso, un sotteso riferimento ad una dimensione
dell’essere e del sentire connessa con un bisogno
di maggiore lucidità negli ordinari e straordinari accadimenti
della vita.
Ma qui, al di là delle implicazione speculative, la scritta
che campeggia sull’opera che costituisce in qualche
misura l’avvio del percorso esplorativo, sottintende
riferimenti più sottili, che alludono, nello specchio
riflesso e variamente ribaltato della
sensibilità e della
immaginazione, ai luoghi comunicativi della cronaca,
dell’informazione, quale la si incontra sulla giornaliera
carta stampata. Luoghi reali e surreali, si direbbe, indicazioni
in apparenza precise, citazioni, racconti, che
vengono tuttavia sovente avvertiti nel profondo come
spazi della contraddizione, della metafora , della fantasia
grottesca.
Non a caso il dys-pensamento di Fabrocile si traduce
subito nella elaborazione di un immaginario surreale,
che non interpreta a primo sguardo lo stravolgimento
dei sensi, che anzi sembra condurre ad una lettura
realista e persino lirica della realtà, e che invece disvela
il suo implicito e recondito mistero.
Fabrocile è avvertito della lezione magrittiana, la attraversa
con una sua personale cifra interpretativa, elabora
ampie scenografie visive, luoghi del sentire fantastico,
a cui riconduce però con finezza una tensione
ironica e riflessiva.
Come nella sagoma dell’uomo con bombetta, il cui
dorso è rivestito con una sorta di mantello, un mosaico
filatelico, in cui si riconoscono le piccole immagini
di volti conosciuti, della cultura, dello spettacolo, da
Totò a Pasolini, interpreti dell’uno e del molteplice pirandelliano
in un tessuto memorico inconscio, quasi
un diario interiore, una personale biblioteca dell’anima.
Il quotidiano è altresì lo spazio in cui si misura la distanza
dall’ieri e dal domani: frammenti di giornale si
perdono nel cielo nuvolato, sorvolano spazi di verde
incontaminato e la vista del futuro, una sorta di piattaforma
petrolifera al largo di un mare senza orizzonte,
reca l’iscrizione “Il futuro è di chi lo sa immaginare”.
C’è una inquietante magia in queste immagini, nella
stessa forma che annuncia l’invisibile, che si legge
nell’onda irreale che sfiora la riva in cui si riflette il
dramma sotto vuoto e sotto plastica di una vita spenta
e sacrificata.
Le stesse barche immobili sul piombo del mare, una
barca per ogni quotidiano, si confrontano con un cielo
che annuncia la burrasca.
Dunque immagini del senso, anzi dei sensi, che tuttavia
introducono al non senso della vita, quello appunto
che non di rado ci dispensano i “famigerati” media.
Giorgio Agnisola
«Niente è più individuale del modo
in cui ci si pone davanti a un’opera
d’arte, niente è al tempo
stesso più caratterizzante un’epoca
di questo stesso porsi. Perché
tutto vi concorre e vi si raccoglie:
sensibilità e dottrina, carattere e
spirito del tempo, visione del
mondo e moda»
(E. H. Gombrich,
Mutamenti nel modo di guardare
l’arte da Winckelmann a oggi)
L’ispirazione civile della pittura di Fabrocile, già esprimentesi
nel ritrarre la marginalità sospesa o la parola
che faticosamente si raggruma in libro e cerca il suo
oggetto, in questa nuova esposizione si precisa e altresì
si complica
Il tempo quotidiano incontrollabile, diluito, espanso,
spossessato, solo ormai consegnato alla parola che
lo dilata, lo comprime, lo potenzia o vanifica, ad uso
di chi se n’appropria, sino al lenocinio, s’affaccia qui
per lacerti, ora lame ora inservibili detriti.
Tempo che opprime e non che salva, rio tempo narrato
a prendere di chi dentro vi vive la miglior parte,
senza ch’egli se n’avveda, stretto tra i poli elidentisi di
variazione/ripetizione.
Tempo quotidiano solo trattenuto, e subito dissipato,
da diluvi di sillabe accostate, a formare parole, sogguardate,
vedute, compitate, anche lette,
in una dimensione
ormai cis-linguistica - prima della lingua
quale mezzo di comunicazione - o trans-linguistica -
oltre tale funzione, e dunque: verso dove? Oltranza
della comunicazione quella odierna, sino all’oltraggio
di chi è, si fa, è spinto, si trova ad esser lettore; di notizie,
comunicati, slogans, messaggi diramati da emittenti
più o meno riconoscibili, più o meno occulti. Civiltà
di parole, ma quale? Cacciato nella centrifuga
mediatica, l’individuo è amputato della condizione di
civis, più spesso ridotto a malsano bacino di raccolta delle già decomposte frattaglie che dovrebbero sintonizzarlo
col mondo fuori di sé, farne possibile lettore
del libro del mondo.
Di fronte a ciò, a muovere Fabrocile è un atto di responsabilità
che incalza e non pacifica. Che ha ad un
suo estremo una chance di riappropriazione della parola
fatta a brani e offerta quando già dilaniata. Il susseguirsi
delle tele pone l’osservatore di fronte alla parola
strillata dal quotidiano ormai decomposta, piegata
ad una desemantizzazione che la riduce a mera
successione di grafemi.Ma in un contesto ancipite.
Dove è altrettanto possibile avviare processi di risemantizzazione
della parola annichilata, se sottratta allo
spazio che l’ha originata e se condotta in un diverso
spazio che l’intreprete voglia ricostruire in uno sforzo
di
resuscitata narrazione, sino alla soglia dolente dell’-
auto-narrazione.
Lo spazio iconologico dove Fabrocile accosta parole
ad immagini è percorso da un’istanza di arbitrarietà;
arbitrarietà consustanziale al segno, che qui prelude
però alla socialità, in quanto rinnovata ricerca di significato
da conferire a veicoli depositati sulla tela come
postumi alla propria funzione originaria. Ricerca ben
oltre che solipsistica, autarchica, giacché avente sempre
ad oggetto la parola fatta pubblica, scagliata nel
circuito collettivo, declinata sulla scena politica. Ma
ricerca in nessun modo garantita quanto ad esiti: a
ciascuno l’onere della procédure. Così esorta la fitta
ricorrenza di temi e di atmosfere magrittiani profondamente
rivissuti; Magritte che semina situazioni quotidiane
di segnali minacciosi, aprendo il reale ad una
pluralità dimensionale, ad una polisemia lacerante,
obbligando l’osservatore ad una affannosa dislocazione
della specola interpretativa. Né ricerca garantita
quanto a direzione: così ancora ammonisce la galleria
di volti più o meno illustri da rotocalco distesi sulla
classica figura de L’ami intime, volti dispiegantisi a
configurare un’apparente anticlímax, la cui risoluzione
tocca scoprire mediante un accostarsi pensoso e prudente
alla tela.
Siano alla mostra viatico i versi di uno dei nostri poeti
che più ha sentito il peso, la responsabilità della parola,
versi da Salutz di Giovanni Giudici, per questa mostra
che tanto chiede a cielo-e-mare: «Dolcezza di parole
/ Di lei soltanto vivremo – / Non io che a pronunziarle
adesso temo / La correzione vostra sospettosa
– / E navigo nel buio cielo-e-mare / All’incerto approdare
/ Dove il parlare mio sarà una cosa…».
Oreste Trabucco
Dys-pensare il quotidiano
In un tempo segnato dal quotidiano dispensato in ogni
forma possibile fino alla dissipazione, è il quotidiano
ancora pensabile? O l’eccesso d’informazione rende
il tempo dis-pensabile?
La velocità vertiginosa del dispensare autorizza ancora
un pensiero responsabile?
L’itinerario della mostra pittorica di Umberto Fabrocile
si impernia su questi interrogativi, ripensando una
maniera d’autore già sperimentata in precedenza
quanto al faticoso e drammatico rapporto parolaimmagine.
Come in ogni responsabile esperienza interpretativa
è l’osservatore chiamato a cercare le tracce
di verità o menzogna che l’autore dissemina.
Oreste Trabucco
I Legni di Cetona
Dieci anni fa entrai per la prima volta nella bottega di ceramiche
di Pippo in Piazza Garibaldi, poi me ne andai girovagando
tra le stradine del borgo antico, che salgono
intorno al Castello, fino in cima.
Ogni passo una scoperta, ogni casa, ogni portale, ogni
angolo, ogni persona, il fascino e la bellezza di un luogo
unico.
Lungo la strada gelsomini, fiori di lavanda, mentuccia
selvatica, boccioli di capperi dagli stami viola, profumi e
colori dei giardini. Tutto all’unisono ha progressivamente
sopraffatto ogni mia resistenza. In cima, sotto la Rocca, i
mille e mille verdi del Monte Cetona, l’incanto del paesaggio
toscano e la sensazione di un luogo di pace e di
armonia. Qui ho trovato il mio porto sicuro, ho ritrovato il
mio passato, presagisco il mio futuro.
Ho sempre pensato che le cose belle vadano condivise.
Da allora ho ospitato a Cetona tutti i miei più cari amici,
perché godessimo assieme della malia di questo luogo;
tra essi Umberto Fabrocile, amico e pittore a me carissimo.
E lui mi ha ripagato per questo.
In un tardo mattino dello scorso autunno, mentre il sole
a poco a poco faceva capolino dopo un forte temporale,
ho accompagnato Umberto in giro a fotografare il Borgo.
Scatto dopo scatto è maturata la sua idea. Cetona attraverso
i suoi legni: porte, portoni, portali, usci, battenti,
maltrattati dal tempo, più e più volte rappezzati, spesso
dai colori stinti e improbabili, ma sempre lì, testimoni
della vita secolare del Borgo e delle sue suggestioni.
Ancora una volta la pittura di Umberto Fabrocile ci spiazza
per la sua originalità.
Le assi sconnesse e martoriate dei suoi legni si affrancano
dalla tela e acquistano vita propria. Fori, cavità, rilievi,
sporgenze, rattoppi, ferri, lucchetti, chiodi arrugginiti, esaltati
dai colori sotterranei del legno e dal gioco di luci
e di ombre, suggeriscono scenari fantastici, oasi felici di
appagamento spirituale.
Suggestioni di Cetona e del paesaggio
toscano.
Oreste Saccone
C’è un breve racconto di Musil, Porte e portoni, che così
si chiude: «I bei giorni delle porte sono ormai lontani [...]
Del resto non si sbatte più la porta in faccia alla gente,
tutt’al più non si accetta l’annunzio telefonico della sua
visita; quanto a “scopare la propria soglia”, è diventata
un’esigenza incomprensibile. Sono modi di dire da un
pezzo superati, care fantasie che ci assalgono melanconicamente
quando consideriamo un vecchio portone.
Storie che svaniscono nell’ombra intorno ai buchi lasciati
aperti provvisoriamente nei nostri tempi soltanto per il
falegname». Musil su queste porte e questi portoni
proiettava la crisi irreparabile di una civiltà che s’era ancora
nutrita di versi mandati a memoria quali quelli incipitari
del carme 67 di Catullo, aperto in forma di paraklausíthyron:
«O dulci iucunda viro, iucunda parenti, /
Salve, teque bona Iuppiter auctet ope, / Ianua»; «Tu a un
ammogliato cara tu a un padre preziosa / Porta, salute a
te! Ricevi da Giove ogni bene» (Catullo secondo Ceronetti).
«Ora, – è ancora Musil – come possono esservi le
porte, quando la “casa” non c’è più? La porta originale
prodotta dalla nostra epoca è quella girevole degli alberghi
e dei negozi. Un tempo la porta, come parte per il
tutto, rappresentava la casa».
Com’è sua cifra, Fabrocile prende a costruire un proprio
possibile itinerario conoscitivo, sotto le insegne di una
discrezione che indugia in limine, convocando l’osservatore
sulla soglia, che ha dunque egli da scegliere se attraversarla.
Una convocazione a un atto di lettura, si potrebbe
dire, che sottende un’etica del lettore, giacché
«non si dà vero dialogo col testo senza avvertire la responsabilità
dell’altro in sé. Ma a questo punto [...] il lettore
si ritrova in una singolare esperienza di libertà: non
la libertà di un consumatore, ma veramente di un cooperatore
» (Ezio Raimondi). Fabrocile costruisce una sorta di
para-testo, le sue soglie sono come prières d’insérer;
«una cosa in para non solo si trova simultaneamente da
una parte e dall’altra della frontiera che separa l’interno
dall’esterno: essa è anche la frontiera stessa, lo schermo
che costituisce la membrana permeabile tra il dentro
e il fuori», ha scritto Joseph Hillis Miller in un saggio intitolato
The critic as Host, che qui viene di citare per la
‘condizione d’ospite’ cui Fabrocile chiama il suo spettatore
potenziale.
È questo un voler preludere ad un testo che è al contempo
presente e a venire, e il testo può farsi di natura e
di storia, se compone un’immagine di Cetona porta essa
stessa, porta sulla Valdichiana.
E perciò, diversamente
che nel racconto di Musil, buchi di porte e portoni possono
richiamare occhi e orecchie, feritoie dietro cui si
svolge un nastro impresso di cose e di uomini.
Oreste Trabucco
... Come non soffermarsi a riflettere, su quei “legni di porte, portoni, usci…maltrattati dal tempo” che possono racchiudere segreti o che si aprono su universi da conquistare con l’animo e
lo sguardo...
Massimo Mercanti
Consigliere della Fondazione Balestrieri
Mater
Interessante la recente produzione artistica di Umberto Fabrocile, testimoniata da questa mostra dal titolo evocativo, «Mater». Il riferimento più immediato è rappresentato dalle Madri, quelle celebri del Museo Campano, le madri-simbolo di una cultura arcaica fondata sul culto della fecondità.
Ma qui il riferimento titolare è letto al singolare, racchiude un’identità più generica: forse una storia e una dedica o una maternità simbolica, propiziata e/o negata.
Certo è che nel segno delle Madri Fabrocile compie un cammino ampio e diversificato.
Accanto infatti a suggestivi contesti surreali, in cui la sagoma della Mater matuta, dipinta con tempere fluorescenti, si staglia sull’infinito di uno sfondo informe e realizzato in alcuni lavori con una tecnica originale su stoffa jeans; accanto ad essi l’artista ha realizzato una serie di quadri di minore grandezza che rimandano ad episodi, temi e contesti della nostra storia recente: episodi in genere drammatici, dal rapimento tragico di Aldo Moro all’eccidio di Giancarlo Siani; dal tema dei migranti a quello dell’inquinamento del nostro territorio.
Del resto Fabrocile ha sempre operato con una pittura di forte consapevolezza contenutistica.
Anche quando il suo stile si è caratterizzato per un registro iperrealistico, peraltro di intensa presa estetica, non si è mai soffermato unicamente sul linguaggio. Egli ha sempre legato l’immagine ad un riferimento ideale, ad un tema, ad una citazione, scientifica o letteraria, implicando un messaggio d’ordine esistenziale.
Si ricordano, per citare, quei piccoli, raffinati dipinti di un po’ di anni fa in cui interpretava in chiave visiva celebri romanzi del
Novecento, creando una sorta di scaffale immaginario, in cui l’opera era vista piuttosto che letta, vista cioè con la sensibilità riflessa di un partecipe sguardo.
Ora, questo suo bisogno di esprimere una natura pensosa e di evidenziarne i riferimenti occasionali, pure all’interno di una pittura più libera e composita, riappare in questa mostra con una cifra intimistica per un verso, consapevolmente riflessa in una testimonianza sociale per l’altro.
Non che il dato più introverso della natura espressiva dell’artista sia meno palese, tutt’altro. Resta in sottofondo un orizzonte di inquietudine e persino di disagio che accompagna il senso dell’immagine e la sua stessa composizione (una sorta di collage memoriale, oltre che compositivo).
Ma qui l’esperienza personale attinge ad una realtà vissuta, alla cronaca, alla storia, al presente. Quello di Fabrocile è cioè uno sguardo a tutto tondo, troppo ampio per non pensare ad un residuo sentimentale e psicologico di un processo interiore che si anima nell’immaginario, impressionando l’artista come segno ispirativo della coscienza.
Nel concreto, con lo spartito di una tecnica mista, in cui è frequente il riferimento giornalistico, Fabrocile definisce
simbolicamente o per diretta allusione spazi di rispecchiamento psicologico e di denuncia civile. In cui il racconto visivo diventa una sorta di emblematico riferimento, relativo al nostro territorio ed oltre e altresì un inventario situazionale ed esemplificativo di episodi e guasti del nostro tempo.
L’assetto compositivo è quasi sempre un assemblaggio di piani cromatici e riferimenti visivi. Vi si riconoscono stralci di giornale, incollati o dipinti, sfondi ad olio e acrilico, disegni e così via.
Mater dunque come emblema e come ritorno, segnale e senso di una fecondità forse perduta, ma recuperabile, anzi necessaria. Mater del passato che si fa presente nel tempo dell’arte, che si rende speranza di una nuova fecondità. Così auspica l’artista col suo linguaggio vivido, composito, sentito. Così speriamo con lui, noi compresi spettatori.
Giorgio Agnisola
Bibliografia
Carlo Roberto Sciascia, “Caserta e Dintorni”, Arte Vinciguerra, Bellona 2001.
Giorgio Agnisola, Enzo Battarra, Vincenzo Perna, “Arte in Terra di Lavoro”, Spring Edizioni, Caserta 2001.
Carlo Roberto Sciascia, “Documenta Artis - Lo stato dell’arte in provincia di Caserta”, Arte Vinciguerra,
Bellona 2008.
Illustrazioni
Arte - Giorgio Mondadori (anno1986 N.165 Ottobre).
Fiera Internazionale di Arte Contemporanea, catalogo generale, edizioni Laterza, Bari 1988.
Art Diary Italia - G. Politi Editore 1989.
Annuario EIAC - Artisti italiani contemporanei - 1992.
Top Arts - Massaccesi editore - 1994 e 1997
Centri di documentazione
Museo internazionale dell’etichetta, documentazione enologica visiva. Palazzo Leoni, Cupra Montana
(AN).
Museo d’arte contemporanea Caserta.
Riconoscimenti
Targa d’argento premio ARTE MONDADORI, 1986.
UMBERTO
FABROCILE