antologia

ANTOLOGIA CRITICA

SUD - 1987
Tra i poli di una dimensione pop e di uno spazio iperreale, ma derivando ascendenze dalla stagione surrealista, Umberto Fabrocile recupera nelle sue opere recenti un taglio espressivo connotato da una duplice valenza. Da una parte è il dato realistico o piuttosto l’accentuazione del reale in termini di messa a fuoco del particolare, colto con vividezza cromatica e con gusto quasi calligrafico del segno, dall’altra è la tensione compositiva, l’inquadratura dell’opera secondo uno schema proprio dell’immagine fotografica che qui, nella riflessione pittorica, si carica di significati metaforici. Alla ricerca è sottesa, in realtà, una tensione mentale: un gusto espressivo vigilato entro un disegno progettuale che acquista corpo nell’opera stessa nel suo farsi e nei rapporti reciproci tra gli elementi formali e cromatici che sono ordinati a costituirla. Progettualità e rivelazione si compongono per così dire in una iconografia che ha il sapore di una realtà colta al di fuori di ogni geografia di spazio e di tempo, vista o intravista nella poesia e nella memoria.

(Giorgio Agnisola, presentazione della mostra, 1987)

Labirinti d’autore, 2001
La parola non è la cosa e tanto meno la parola letteraria che se si scava un tempo d’esistenza è nel riverbero di un’immagine mentale, di una traccia lasciata dal gioco mediato dei segni e dei rimandi. Se queste tracce si riflettono poi su una tela subiscono un’ulteriore codificazione ma lo scopo rimane lo stesso: rendere visibile una coscienza intenzionale e le sue modalità di rappresentazione, innalzando il regno del linguaggio, mediante uno sforzo d’incivilimento del grido, dell’emozione prima e indicibile, del suo lessico prezioso ma per molti versi indecifrabile. Eppure le tracce del Novecento sono anche propriamente corpi, oggetti, che però non vincolano ad un senso, costituendo ormai una razionalità parziale, cioè solo una parte del discorso che si è fatto complesso e si perde nei rivoli senza alcuna garanzia contro il dubbio. Per questa doppia ragione, intrinseca e storica, anche quando sembra riprodurre la realtà, e forse ancor più quando tende puntualmente a descriverla o a imitarla, il quadro non mette a nudo le cose, ma dei corpi associati, cioè dei sensi, procedendo di dubbio in dubbio nel tentativo di rivelare una coscienza e di metterla davanti all’altro perché l’altro possa aiutarla a dirsi, nella chiamata comune dell’essere alla ricerca della donazione di senso. Perché la piuma pesa fino ad inarcare il legno? Dove comincia o finisce un gesto? Dove si è rintanata l’alterità? È assente negli scaffali della libreria, o si cela nelle ombre di una foto o dei ricordi personali; nella montagna di scarpe di una memoria collettiva? Il Novecento sa bene che una coscienza è solo un iceberg, che dietro una coscienza c’è molto di più e c’è quasi tutto: c’è il tempo che bussa alle pareti di una prigione spaziale, c’è l’urlo lacerante della disperazione e della solitudine, c’è la gioia indicibile, c’è tutto quello che non sappiamo di noi. Se ciò che il quadro rende visibile è il bisogno di senso che c’è nelle parole e nelle immagini, e di un senso non già dato ma sempre da costruire, sempre da farsi, allora il quadro invita ad un atto di corresponsabilità: a donare senso a partire dal proprio sguardo, dalla propria collocazione prospettica, riconoscendone la portata e i limiti e aprendosi alla pluralità del confronto. Ma in questa assunzione del senso come donazione, della visione come costruzione, della pluralità ora come obiettivo di civiltà ora come scontro di entità irrelate; dello specchio che non si rispecchia, del liquido che non discende, del filo che nulla regge, non c’è la stessa complessitàsemantica ed euristica di un secolo? Non c’è la ragione stessa della sua libertà e dei suoi drammi?

(Giuseppe Ventrone, Caserta, 2000)

"… Anche quella di Fabrocile è una fine operazione intellettuale. Si tratta del tentativo, da parte dell’artista casertano, di creare un legame fra parola e immagine, attraverso la suggestione metaforica dell’opera letteraria riflessa nella interpretazione visiva. In effetti i quadri di Fabrocile caratterizzano alcuni romanzi più significativi del Novecento attraverso oggetti, cose, simboli che sono, in definitiva, sintesi estreme del swnso profondo del romanzo di volta in volta preso in considerazione…".

(Lidia Luberto, “Il Mattino” 22 aprile 2001)

Un paesaggio angosciosamente terso fa da sfondo agli elementi pittorici dei quadri di Umberto Fabrocile. Sembra quasi che la visione delle opere avvenga, e può solo avvenire, attraverso un filtro di una lastra di vetro che, seppur separandoci, ci coinvolge nella realtà di un oggetto quotidiano, anche se, al tempo stesso, ne impedisce il contatto, l’appropriazione, poiché l’oggetto ha subito un processo di iconizzazione ed è diventato segno artistico, acquisendo un valore semantico amplificato. La sua dimensione di reale resta nell’ombra che si staglia da esso, o nell’inquietante rappresentazione statica di un momento cinetico quale il gocciolare di panni stesi ad asciugare o il loro sventolare al vento. Ovunque, tracce di una presenza discreta, appena accennata. Ma l’artista si concede anche a giochi di seduzione mentale più raffinati. Allora le ombre si trasformano in linee di confine, dove il dettaglio diviene fine a sé stesso nel suo netto isolamento spaziale dal contesto; ma è anche parte emotiva di un tutto composto da mondi paralleli che si intravedono tra loro, si sbirciano, ma non si intersecano. Sta a chi guarda, la scelta di andare oltre la linea di confine.

(Patrizio Siviero, Caserta 23 marzo 2002)

La prima interpretazione dei lavori recenti di Umberto Fabrocile si concentra sul significato simbolico dell’arte come segno d’origine di una dimensione metaforica che costituisce un linguaggio “altro”, integrativo e talora alternativo della pagina scritta e della parola. Interpretazione che insegue il contenuto iconografico dell’opera e il suo progetto espositivo, caratterizzati da una forma espressiva nitida, da un linguaggio pulito ed essenziale, segnato da un lucido e intenso realismo visivo che si alimenta di multiple e alternate suggestioni ( il vuoto e il pieno, lo scaffale e l’oggetto su di esso collocato, il titolo dell’opera rappresentata e la sua traduzione allusiva e così via). Ad una successiva lettura si coglie però un senso più nascosto, più psicologico si direbbe, ma anche più poetico dell’arte. Si avverte che le opere non sono state scelte per caso e neppure con un criterio puramente coreografico o visivo: la scelta risponde ad un percorso interiore: un percorso affatto interpretato senza un principio e naturalmente senza un fine. L’opera cioè e la sua immagine riflessa e trasposta costituiscono il luogo di una dialettica speculazione della vita, quella dell’artista che interpreta il mondo in una forma visibile che corrisponde a quella invisibile, quella dell’artista che legge i nessi della stessa sua esistenza nel dialogo con l’altro da sé riflesso e mediato nell’immagine.Di qui, anche, lo stile di Fabrocile: la levigatura del tratto, l’evidenza tecnica, la scelta stessa di una forma di iperrealismo intimista e controllato. C’è insomma nella ricerca di Fabrocile il tratto di una indagine intima, che aspira a una sintesi di vita, a tradursi in presenza intellettuale, in logica dei sentimenti e della sensibilità. Una logica che ha tempi lunghi, che si intuisce presupporre la persistenza del tempo e l’apprensione dei suoi spazi interiori, delle sue vie silenziose e profonde nei chiusi riverberi dell’emozione e della coscienza. Un tempo che dilata le sue pareti sensibili nella tesa coniugazione di visione e memoria psicologica, tra passato e presente, tra realtà e immaginazione.

(Giorgio Agnisola, testo in catalogo, Caserta 2003)

La libreria pittorica di Fabrocile ci si offre allo sguardo come una galleria di volumi e oggetti. Ma essa, coerente con la propria natura, dopo la prima occhiata, ci chiama ad instaurare un rapporto di lettura a molti strati; dietro il sobrio rigore delle linee rette degli scaffali, dei libri scorgiamo l’appello ad un responsabile atto di cooperazione interpretativa. Il mondo del libro, il libro del mondo: è il paradigma metaforologico esplorato da Blumenberg, che lo percorre dalle origini scritturali alla formulazione del codice genetico, riconoscendone la vitalità attraverso i successivi riadattamenti cui è sottoposto nella storia della cultura occidentale. Leggere il libro del mondo è ideale primigenio e frustrante: quando il Macedone è alle porte, avvisa lo scettico Luciano di Samosata, l’intellettuale deve farsi xénos en toís biblíois, ospite dei propri libri. Dinanzi alla barbarie l’intellettuale si chiude nella propria biblioteca, inerme custode dei valori di civiltà, frugando tra le pagine in cerca di restaurare un ordine negato. La biblioteca è spazio di legittimazione quanto di compensazione dell’impotenza. La pittura ha rappresentato con impareggiabile efficacia questa condizione ancipite lungo il farsi della modernità; pensiamo all’iconografia di san Girolamo raffigurato nel suo studio, emblema dell’intellettuale; pensiamo al san Girolamo di Antonello da Messina della National Gallery e a quello di Carpaccio della veneziana Scuola di San Giorgio, che ci restituiscono l’immagine del crescente prestigio dell’uomo di lettere rinascimentale, i cui massicci tomi e raffinati oggetti assurgono a status-symbols di un nuovo ideale di nobiltà; pensiamo d’altronde al san Girolamo di Dürer della Galleria Corsiniana e a quello di Caravaggio della Galleria Borghese, nel cui studio campeggia un teschio a monito del memento mori, della vanitas, insomma dell’irriducibile conflitto tra natura e cultura; e pensiamo ancora al ritratto di Erasmo da Rotterdam del fiammingo Quentin Metsys, dove l’umanista ci appare intento alla scrittura immerso fra i propri libri, con in pugno la penna che, fin quando avrà energie, vorrà opporre alle spade sguainate dagli odi confessionali. Questa tradizione pittorica, che rappresenta lo sforzo di serbare una possibile leggibilità del mondo, è notomizzata nelle tele di Fabrocile, il quale ritaglia bui scaffali, membra dolorosamente amputate dal corpo della biblioteca, mute finestre illuminate dalla sola presenza del libro. Libri tascabili, edizioni comuni, per lo più, nessuna lussuosa copertina, nessuna pregiata legatura. Libri sodi e virili, si sarebbe detto un tempo – ed era il tempo, sarà bene ricordarlo, in cui il libro era inteso come arma contro la tirannia fascista. Libri perciò corposi, raffigurati con puntigliosa esattezza. Oggetti non sublimi, ma di concreta fisicità. Il riquadro della scansia configura lo spazio e lo risucchia fino ad esaurirlo. Spazio in cui non trovano posto altro che oggetti, dove la figura umana è ineluttabilmente estromessa. E allora, si dirà, la biblioteca postuma (post-moderna? ), polverizzata, luogo della rovina, è l’unico spazio possibile, dove ritirarsi in compagnia di pochi libri fortunosamente sopravvissuti, non più garanti di alcuna coerente cifra ermeneutica? dove si è per sempre rinunziato al sogno – frustrato –, che fu di Mallarmé, fu di Borges di vedere «il mondo risolversi in un bel libro»? Le monde […] est fait pour aboutir à un beau livre … E invece quel mondo si può solo sogguardarlo come da una prigione, entro dipinta gabbia? Questo, ma anche altro. In ogni dipinto di Fabrocile al libro è giustapposto un oggetto. Un oggetto all’oggetto- libro. Ma, si badi, non è questa tecnica di correlativo oggettivo, volontà di affidare, travasare nell’oggetto il senso del libro – o lo è solo in certa misura. Qui il piano dei significanti e quello dei significati sono abilmente disarticolati. L’oggetto è piuttosto estrusione, sporgenza del libro verso il mondo. Tentativo di evasione, e solo parziale, dalla gabbia dipinta. Gli oggetti sono ora banali, ora ironicamente introdotti, ora tratti dalla sfuggente memoria personale dell’autore: la bottiglia per Bukowski, il ficodindia per Camilleri, la foto materna per Moravia. Libro e oggetto danno origine ad un movimento pendolare, che complica e intende non definire il rapporto tra interno-libro e esterno- mondo – ma i due binomi sono suscettibili d’inversione quanto alla relazione tra interno ed esterno – , tra ciò che è centripeto e ciò che è centrifugo. E altrettanto aperto resta il rapporto di lettura che l’osservatore è chiamato a stabilire con il dipinto, poiché l’accoppiamento tra libro ed oggetto, ora scontato ora capriccioso, suggerisce l’impossibilità di esaurire il senso del libro nel referente storico-effettuale.
Atto di lettura come atto di responsabilità, ricezione inesaurita, ma non concessione a decostruire.
In ciò si rivela il senso ultimo dell’opera di Fabrocile, che vuol dirsi politico, in accezione originale, politikòs, civile. Si guardi l’unica tela di più ampie dimensioni, dove nelle reti che Fabrocile cala nel suo mare cartaceo resta Gramsci, Gramsci dietro le sbarre, emblema del prigioniero che qui s’è più volte evocato, la sua grafia rigorosamente riprodotta su un foglio accartocciato, che è icastica rappresentazione di una condizione, di una precisa maniera d’intendere la storia e la filosofia e la politica, maniera dal carcere segnata, che rinunzia a compatti edifici teoretici, e si rivela invece nelle pagine dei Quaderni, nei fogli delle Lettere, del carcere appunto. E’ questa l’estrema sporgenza di Fabrocile, che dietro la grata sa riconoscere il Gramsci così dipinto da Gobetti nella Rivoluzione liberale: «Più che un tattico e un combattente Gramsci è un profeta. Come si può esserlo oggi: inascoltati se non dal fato. La sua polemica catastrofica, la sua satira disperata non attendono consolazione facile. Tutta l’umanità, tutto il presente gli è in sospetto. Chiede la giustizia a un feroce futuro vendicatore».

(Oreste Trabucco, testo in catalogo, Caserta 2003)

“Dys-pensare il quotidiano” - 2007
L’altro, per Umberto Fabrocile, è ciò che si muove intorno a noi, dalle inezie quotidiane fino ai grandi eventi politici, che l’artista recepisce, filtra e traduce nei suoi dipinti-collage. Egli annoda, accoppia, stringe, associa elementi vari, dispone carte, toccate o invase da colori, affiancandole a riflessioni, addizioni fotografiche e tesi politico filosofiche che fanno della sua arte un mezzo, talvolta duro e dissacrante, di denuncia.

(Nadia Verdile, presentazione mostra, Caserta 2007)

La recente ricerca visiva di Umberto Fabrocile, sembra muovere da un suggerimento di ordine filosofico. E in realtà non è esclusa nella ambiguità del suo possibile senso, un sotteso riferimento ad una dimensione dell’essere e del sentire connessa con un bisogno di maggiore lucidità negli ordinari e straordinari accadimenti della vita.
Ma qui, al di là delle implicazione speculative, la scritta che campeggia sull’opera che costituisce in qualche misura l’avvio del percorso esplorativo, sottintende riferimenti più sottili, che alludono, nello specchio riflesso e variamente ribaltato della sensibilità e della immaginazione, ai luoghi comunicativi della cronaca, dell’informazione, quale la si incontra sulla giornaliera carta stampata. Luoghi reali e surreali, si direbbe, indicazioni in apparenza precise, citazioni, racconti, che vengono tuttavia sovente avvertiti nel profondo come spazi della contraddizione, della metafora , della fantasia grottesca. Non a caso il dys-pensamento di Fabrocile si traduce subito nella elaborazione di un immaginario surreale, che non interpreta a primo sguardo lo stravolgimento dei sensi, che anzi sembra condurre ad una lettura realista e persino lirica della realtà, e che invece disvela il suo implicito e recondito mistero. Fabrocile è avvertito della lezione magrittiana, la attraversa con una sua personale cifra interpretativa, elabora ampie scenografie visive, luoghi del sentire fantastico, a cui riconduce però con finezza una tensione ironica e riflessiva. Come nella sagoma dell’uomo con bombetta, il cui dorso è rivestito con una sorta di mantello, un mosaico filatelico, in cui si riconoscono le piccole immagini di volti conosciuti, della cultura, dello spettacolo, da Totò a Pasolini, interpreti dell’uno e del molteplice pirandelliano in un tessuto memorico inconscio, quasi un diario interiore, una personale biblioteca dell’anima. Il quotidiano è altresì lo spazio in cui si misura la distanza dall’ieri e dal domani: frammenti di giornale si perdono nel cielo nuvolato, sorvolano spazi di verde incontaminato e la vista del futuro, una sorta di piattaforma petrolifera al largo di un mare senza orizzonte, reca l’iscrizione “Il futuro è di chi lo sa immaginare”. C’è una inquietante magia in queste immagini, nella stessa forma che annuncia l’invisibile, che si legge nell’onda irreale che sfiora la riva in cui si riflette il dramma sotto vuoto e sotto plastica di una vita spenta e sacrificata. Le stesse barche immobili sul piombo del mare, una barca per ogni quotidiano, si confrontano con un cielo che annuncia la burrasca. Dunque immagini del senso, anzi dei sensi, che tuttavia introducono al non senso della vita, quello appunto che non di rado ci dispensano i “famigerati” media.

(Giorgio Agnisola, testo in catalogo, Caserta 2007)

«Niente è più individuale del modo in cui ci si pone davanti a un’opera d’arte, niente è al tempo stesso più caratterizzante un’epoca di questo stesso porsi. Perché tutto vi concorre e vi si raccoglie: sensibilità e dottrina, carattere e spirito del tempo, visione del mondo e moda»

(E. H. Gombrich, Mutamenti nel modo di guardare l’arte da Winckelmann a oggi)

L’ispirazione civile della pittura di Fabrocile, già esprimentesi nel ritrarre la marginalità sospesa o la parola che faticosamente si raggruma in libro e cerca il suo oggetto, in questa nuova esposizione si precisa e altresì si complica Il tempo quotidiano incontrollabile, diluito, espanso, spossessato, solo ormai consegnato alla parola che lo dilata, lo comprime, lo potenzia o vanifica, ad uso di chi se n’appropria, sino al lenocinio, s’affaccia qui per lacerti, ora lame ora inservibili detriti. Tempo che opprime e non che salva, rio tempo narrato a prendere di chi dentro vi vive la miglior parte, senza ch’egli se n’avveda, stretto tra i poli elidentisi di variazione/ripetizione. Tempo quotidiano solo trattenuto, e subito dissipato, da diluvi di sillabe accostate, a formare parole, sogguardate, vedute, compitate, anche lette, in una dimensione ormai cis-linguistica - prima della lingua quale mezzo di comunicazione - o trans-linguistica - oltre tale funzione, e dunque: verso dove? Oltranza della comunicazione quella odierna, sino all’oltraggio di chi è, si fa, è spinto, si trova ad esser lettore; di notizie, comunicati, slogans, messaggi diramati da emittenti più o meno riconoscibili, più o meno occulti. Civiltà di parole, ma quale? Cacciato nella centrifuga mediatica, l’individuo è amputato della condizione di civis, più spesso ridotto a malsano bacino di raccolta delle già decomposte frattaglie che dovrebbero sintonizzarlo col mondo fuori di sé, farne possibile lettore del libro del mondo. Di fronte a ciò, a muovere Fabrocile è un atto di responsabilità che incalza e non pacifica. Che ha ad un suo estremo una chance di riappropriazione della parola fatta a brani e offerta quando già dilaniata. Il susseguirsi delle tele pone l’osservatore di fronte alla parola strillata dal quotidiano ormai decomposta, piegata ad una desemantizzazione che la riduce a mera successione di grafemi.Ma in un contesto ancipite. Dove è altrettanto possibile avviare processi di risemantizzazione della parola annichilata, se sottratta allo spazio che l’ha originata e se condotta in un diverso spazio che l’intreprete voglia ricostruire in uno sforzo di resuscitata narrazione, sino alla soglia dolente dell’- auto-narrazione. Lo spazio iconologico dove Fabrocile accosta parole ad immagini è percorso da un’istanza di arbitrarietà; arbitrarietà consustanziale al segno, che qui prelude però alla socialità, in quanto rinnovata ricerca di significato da conferire a veicoli depositati sulla tela come postumi alla propria funzione originaria. Ricerca ben oltre che solipsistica, autarchica, giacché avente sempre ad oggetto la parola fatta pubblica, scagliata nel circuito collettivo, declinata sulla scena politica. Ma ricerca in nessun modo garantita quanto ad esiti: a ciascuno l’onere della procédure. Così esorta la fitta ricorrenza di temi e di atmosfere magrittiani profondamente rivissuti; Magritte che semina situazioni quotidiane di segnali minacciosi, aprendo il reale ad una pluralità dimensionale, ad una polisemia lacerante, obbligando l’osservatore ad una affannosa dislocazione della specola interpretativa. Né ricerca garantita quanto a direzione: così ancora ammonisce la galleria di volti più o meno illustri da rotocalco distesi sulla classica figura de L’ami intime, volti dispiegantisi a configurare un’apparente anticlímax, la cui risoluzione tocca scoprire mediante un accostarsi pensoso e prudente alla tela. Siano alla mostra viatico i versi di uno dei nostri poeti che più ha sentito il peso, la responsabilità della parola, versi da Salutz di Giovanni Giudici, per questa mostra che tanto chiede a cielo-e-mare: «Dolcezza di parole / Di lei soltanto vivremo – / Non io che a pronunziarle adesso temo / La correzione vostra sospettosa – / E navigo nel buio cielo-e-mare / All’incerto approdare / Dove il parlare mio sarà una cosa…».

Oreste Trabucco testo in catalogo, Caserta 2007

In un tempo segnato dal quotidiano dispensato in ogni forma possibile fino alla dissipazione, è il quotidiano ancora pensabile? O l’eccesso d’informazione rende il tempo dis-pensabile? La velocità vertiginosa del dispensare autorizza ancora un pensiero responsabile? L’itinerario della mostra pittorica di Umberto Fabrocile si impernia su questi interrogativi, ripensando una maniera d’autore già sperimentata in precedenza quanto al faticoso e drammatico rapporto parolaimmagine. Come in ogni responsabile esperienza interpretativa è l’osservatore chiamato a cercare le tracce di verità o menzogna che l’autore dissemina.

Oreste Trabucco

I Legni di Cetona 2014
Dieci anni fa entrai per la prima volta nella bottega di ceramiche di Pippo in Piazza Garibaldi, poi me ne andai girovagando tra le stradine del borgo antico, che salgono intorno al Castello, fino in cima. Ogni passo una scoperta, ogni casa, ogni portale, ogni angolo, ogni persona, il fascino e la bellezza di un luogo unico. Lungo la strada gelsomini, fiori di lavanda, mentuccia selvatica, boccioli di capperi dagli stami viola, profumi e colori dei giardini. Tutto all’unisono ha progressivamente sopraffatto ogni mia resistenza. In cima, sotto la Rocca, i mille e mille verdi del Monte Cetona, l’incanto del paesaggio toscano e la sensazione di un luogo di pace e di armonia. Qui ho trovato il mio porto sicuro, ho ritrovato il mio passato, presagisco il mio futuro. Ho sempre pensato che le cose belle vadano condivise. Da allora ho ospitato a Cetona tutti i miei più cari amici, perché godessimo assieme della malia di questo luogo; tra essi Umberto Fabrocile, amico e pittore a me carissimo. E lui mi ha ripagato per questo. In un tardo mattino dello scorso autunno, mentre il sole a poco a poco faceva capolino dopo un forte temporale, ho accompagnato Umberto in giro a fotografare il Borgo. Scatto dopo scatto è maturata la sua idea. Cetona attraverso i suoi legni: porte, portoni, portali, usci, battenti, maltrattati dal tempo, più e più volte rappezzati, spesso dai colori stinti e improbabili, ma sempre lì, testimoni della vita secolare del Borgo e delle sue suggestioni. Ancora una volta la pittura di Umberto Fabrocile ci spiazza per la sua originalità. Le assi sconnesse e martoriate dei suoi legni si affrancano dalla tela e acquistano vita propria. Fori, cavità, rilievi, sporgenze, rattoppi, ferri, lucchetti, chiodi arrugginiti, esaltati dai colori sotterranei del legno e dal gioco di luci e di ombre, suggeriscono scenari fantastici, oasi felici di appagamento spirituale.
Suggestioni di Cetona e del paesaggio toscano.

Oreste Saccone

C’è un breve racconto di Musil, Porte e portoni, che così si chiude: «I bei giorni delle porte sono ormai lontani [...] Del resto non si sbatte più la porta in faccia alla gente, tutt’al più non si accetta l’annunzio telefonico della sua visita; quanto a “scopare la propria soglia”, è diventata un’esigenza incomprensibile. Sono modi di dire da un pezzo superati, care fantasie che ci assalgono melanconicamente quando consideriamo un vecchio portone. Storie che svaniscono nell’ombra intorno ai buchi lasciati aperti provvisoriamente nei nostri tempi soltanto per il falegname». Musil su queste porte e questi portoni proiettava la crisi irreparabile di una civiltà che s’era ancora nutrita di versi mandati a memoria quali quelli incipitari del carme 67 di Catullo, aperto in forma di paraklausíthyron: «O dulci iucunda viro, iucunda parenti, / Salve, teque bona Iuppiter auctet ope, / Ianua»; «Tu a un ammogliato cara tu a un padre preziosa / Porta, salute a te! Ricevi da Giove ogni bene» (Catullo secondo Ceronetti). «Ora, – è ancora Musil – come possono esservi le porte, quando la “casa” non c’è più? La porta originale prodotta dalla nostra epoca è quella girevole degli alberghi e dei negozi. Un tempo la porta, come parte per il tutto, rappresentava la casa». Com’è sua cifra, Fabrocile prende a costruire un proprio possibile itinerario conoscitivo, sotto le insegne di una discrezione che indugia in limine, convocando l’osservatore sulla soglia, che ha dunque egli da scegliere se attraversarla. Una convocazione a un atto di lettura, si potrebbe dire, che sottende un’etica del lettore, giacché «non si dà vero dialogo col testo senza avvertire la responsabilità dell’altro in sé. Ma a questo punto [...] il lettore si ritrova in una singolare esperienza di libertà: non la libertà di un consumatore, ma veramente di un cooperatore » (Ezio Raimondi). Fabrocile costruisce una sorta di para-testo, le sue soglie sono come prières d’insérer; «una cosa in para non solo si trova simultaneamente da una parte e dall’altra della frontiera che separa l’interno dall’esterno: essa è anche la frontiera stessa, lo schermo che costituisce la membrana permeabile tra il dentro e il fuori», ha scritto Joseph Hillis Miller in un saggio intitolato The critic as Host, che qui viene di citare per la ‘condizione d’ospite’ cui Fabrocile chiama il suo spettatore potenziale.
È questo un voler preludere ad un testo che è al contempo presente e a venire, e il testo può farsi di natura e di storia, se compone un’immagine di Cetona porta essa stessa, porta sulla Valdichiana. E perciò, diversamente che nel racconto di Musil, buchi di porte e portoni possono richiamare occhi e orecchie, feritoie dietro cui si svolge un nastro impresso di cose e di uomini.
Oreste Trabucco … L’arte di Fabrocile incanta Cetona. «La Nazione», Agosto 2014
... Come non soffermarsi a riflettere, su quei “legni di porte, portoni, usci…maltrattati dal tempo” che possono racchiudere segreti o che si aprono su universi da conquistare con l’animo e lo sguardo...

Massimo Mercanti Consigliere della Fondazione Balestrieri

Mater- 2017
Interessante la recente produzione artistica di Umberto Fabrocile, testimoniata da questa mostra dal titolo evocativo, «Mater». Il riferimento più immediato è rappresentato dalle Madri, quelle celebri del Museo Campano, le madri-simbolo di una cultura arcaica fondata sul culto della fecondità. Ma qui il riferimento titolare è letto al singolare, racchiude un’identità più generica: forse una storia e una dedica o una maternità simbolica, propiziata e/o negata. Certo è che nel segno delle Madri Fabrocile compie un cammino ampio e diversificato.
Accanto infatti a suggestivi contesti surreali, in cui la sagoma della Mater matuta, dipinta con tempere fluorescenti, si staglia sull’infinito di uno sfondo informe e realizzato in alcuni lavori con una tecnica originale su stoffa jeans; accanto ad essi l’artista ha realizzato una serie di quadri di minore grandezza che rimandano ad episodi, temi e contesti della nostra storia recente: episodi in genere drammatici, dal rapimento tragico di Aldo Moro all’eccidio di Giancarlo Siani; dal tema dei migranti a quello dell’inquinamento del nostro territorio.
Del resto Fabrocile ha sempre operato con una pittura di forte consapevolezza contenutistica.
Anche quando il suo stile si è caratterizzato per un registro iperrealistico, peraltro di intensa presa estetica, non si è mai soffermato unicamente sul linguaggio. Egli ha sempre legato l’immagine ad un riferimento ideale, ad un tema, ad una citazione, scientifica o letteraria, implicando un messaggio d’ordine esistenziale.
Si ricordano, per citare, quei piccoli, raffinati dipinti di un po’ di anni fa in cui interpretava in chiave visiva celebri romanzi del Novecento, creando una sorta di scaffale immaginario, in cui l’opera era vista piuttosto che letta, vista cioè con la sensibilità riflessa di un partecipe sguardo.
Ora, questo suo bisogno di esprimere una natura pensosa e di evidenziarne i riferimenti occasionali, pure all’interno di una pittura più libera e composita, riappare in questa mostra con una cifra intimistica per un verso, consapevolmente riflessa in una testimonianza sociale per l’altro.
Non che il dato più introverso della natura espressiva dell’artista sia meno palese, tutt’altro. Resta in sottofondo un orizzonte di inquietudine e persino di disagio che accompagna il senso dell’immagine e la sua stessa composizione (una sorta di collage memoriale, oltre che compositivo).
Ma qui l’esperienza personale attinge ad una realtà vissuta, alla cronaca, alla storia, al presente. Quello di Fabrocile è cioè uno sguardo a tutto tondo, troppo ampio per non pensare ad un residuo sentimentale e psicologico di un processo interiore che si anima nell’immaginario, impressionando l’artista come segno ispirativo della coscienza.
Nel concreto, con lo spartito di una tecnica mista, in cui è frequente il riferimento giornalistico, Fabrocile definisce simbolicamente o per diretta allusione spazi di rispecchiamento psicologico e di denuncia civile. In cui il racconto visivo diventa una sorta di emblematico riferimento, relativo al nostro territorio ed oltre e altresì un inventario situazionale ed esemplificativo di episodi e guasti del nostro tempo. L’assetto compositivo è quasi sempre un assemblaggio di piani cromatici e riferimenti visivi. Vi si riconoscono stralci di giornale, incollati o dipinti, sfondi ad olio e acrilico, disegni e così via. Mater dunque come emblema e come ritorno, segnale e senso di una fecondità forse perduta, ma recuperabile, anzi necessaria. Mater del passato che si fa presente nel tempo dell’arte, che si rende speranza di una nuova fecondità. Così auspica l’artista col suo linguaggio vivido, composito, sentito. Così speriamo con lui, noi compresi spettatori.

Giorgio Agnisola

Agonia della Parola- 2022
Un titolo provocatorio per questa mostra che è dedicata alla parola, a quella parola che ormai troppo spesso trascuriamo.

In un’era dove impera il digitale sono scomparse lettere e cartoline. In una comunicazione che diventa sempre più frenetica e densa di faccine e like, la parola non ha vita facile.

Questa mostra vuole essere anche un omaggio a tutti i letterati, poeti e parolieri che con la parola hanno descritto i sentimenti più profondi, usandole così come un pittore usa i suoi colori.


Bibliografia
Carlo Roberto Sciascia, “Caserta e Dintorni”, Arte Vinciguerra, Bellona 2001.
Giorgio Agnisola, Enzo Battarra, Vincenzo Perna, “Arte in Terra di Lavoro”, Spring Edizioni, Caserta 2001.
Carlo Roberto Sciascia, “Documenta Artis - Lo stato dell’arte in provincia di Caserta”, Arte Vinciguerra, Bellona 2008.

Illustrazioni
Arte - Giorgio Mondadori (anno1986 N.165 Ottobre).
Fiera Internazionale di Arte Contemporanea, catalogo generale, edizioni Laterza, Bari 1988.
Art Diary Italia - G. Politi Editore 1989.
Annuario EIAC - Artisti italiani contemporanei - 1992.
Top Arts - Massaccesi editore - 1994 e 1997

Centri di documentazione
Museo internazionale dell’etichetta, documentazione enologica visiva. Palazzo Leoni, Cupra Montana (AN).
Museo d’arte contemporanea Caserta.

Riconoscimenti
Targa d’argento premio ARTE MONDADORI, 1986.
visitatore: 199468



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